Zanobi Macinghi fiorentino
e gli Angiò Durazzo sovrani di Napoli

Zanobi di Neri di Uguccione Macinghi fu un mercante e banchiere fiorentino della seconda metà del trecento.
Visse ovviamente in patria, anche se qui è poco documentato. Tra le azioni notevoli, l’edificazione nel 1385 alla SS. Annunziata l’oratorio di famiglia, diventato poi cappella del Capitolo.
Soprattutto Zanobi ebbe stretti affari con i regnanti di Napoli e seppe agire e fare il proprio e l’altrui interesse in un secolo temibile e in una città che era una delle più movimentate d’Italia, per la presenza di capitale, di industrie e di una vivace attività portuale, e nello stesso tempo teatro di feroci contrasti per la successione al trono.
Difficile oggi è perfino narrarne la cronologia, tanto è fitta di guerre e capovolgimenti. Per dirla in breve, e al netto della Chiesa e dello scisma (1378-1418) che pure condizionò i fatti, nel tempo che ci interessa, Carlo di Durazzo, nipote di Luigi I il Grande d'Ungheria, fu adottato per la successione al trono napoletano dalla regina Giovanna I d’Angiò, priva di figli, e poi ‘revocato’ a favore di Luigi II degli Angiò di Francia. Ne segurono contrasti e scontri che Carlo vinse, facendo imprigionare e uccidere Giovanna (1382). Quindi, da sovrano (ora Carlo III) si recò in Ungheria a rivendicare il trono di Luigi il Grande († 1382), deceduto senza eredi maschi. Contrastato dalle figlie del re fu a sua volta ucciso a Visegrad (1386). Napoli pertanto cadde in mano di Luigi II d’Angiò (1389), ma venne ripresa dal figlio di Carlo, Ladislao I (1399) che regnò fino alla morte (1414), lasciando il trono alla sorella Giovanna II († 1435, senza eredi).
Furono, quelle accennate, vicende con ripercussioni violente e crudeli nelle quali Zanobi Macinghi ebbe una parte senza essere uomo d’arme, ma usando il denaro come mercante, banchiere e uomo di corte.

Nel 1378 è ricordato dall’arcivescovo e conte di Strigonia (Esztergom in Ungheria), il piacentino Giovanni de Surdis, tesoriere di Luigi il Grande. Vicino alla morte, il presule riconobbe che per il re “ac pro suis negociis et agendi et de suo beneplacito”, aveva ricevuto dal mercante fiorentino varie migliaia di fiorini d'oro.
Ad esempio fiorini 7300 erano stati “pro paramentis sive curtinis camerariorum ipso domini nostri regis” e fiorini 418 “pro eundem Zenobium dominis Valentino episcopo Quinque Eccles. [Valentino de Alsan, vescovo delle Cinque Chiese, † 1408] et Niccholao de Zech bano [di Dalmazia e Croazia]” nunzi regi. Altri fiorini 1000 invece erano stati computati in mano di Raffaele “fratris nostri” (dell’arcivescovo) da Niccolaio Zambo allora tesoriere del sovrano; e fiorini 325 dati a Raffaele “cum eundi versus Iadram [Zara]”. Il mercante inoltre doveva avere fiorini 3010 “de camera regali salium regalium de Zegedeno”, per la ragalia del sale di Seghedino (Szegedi).
Su questi debiti, l’arcivescovo fece rogare la pergamena a Visegrad “in octavis beati Georgi maioris”. Seguì l’autentica fatta a Firenze il 15 marzo 1377 (1378), di certo perché Zanobi potesse riscuotere il dovuto. Filippo notaio insinuò la copia del documento al giudice e ufficiale della mercanzia Andrea dei conti da Foligno che ne confermò l'autenticità alla presenza dei notai Lorenzo del fu ser Lando Ubaldini, Bartolomeo del fu Giovanni Nicolai, Andrea del fu ser Angelo di ser Andrea Donati, Francesco e Filippo, entrambi figli di ser Luca di Francesco.
Testimoni – li citiamo per non perderli – furono Marco Buoni Filippi di San Michele Visdomini, Niccolaio di Donato Barbadoro di Santa Felicita e Simone Puccini setaiolo di San Piero Scheraggio.
Nell’autentica è descritto il sigillo dell’arcivescovo “in cera rubra arma cum cimerio et licteris circhum circha” con il suo nome. Vi si trova pure il ricordo della moglie e del figlio di Raffaele de Surdis: .. “et de strenua domina domina Elena delilpozio consorte quondam strenui militis domini Raphaelli de Sordis et de nobili viro Mozzino filio quondam dicti domini Raphaellis eisdemque domine Lene”.

L’8 aprile 1383 fu Carlo III a eleggere lo stimato Zanobi Macinghi, “compatris familiaris et devoti nostra dilecti plena ab experto fiducia”, come suo maestro portulano, procuratore segreto e maestro del sale nel distretto della Puglia con giurisdizione su città, terre, castelli, casali, “villas, starcias, vineas, jardena, molendina, domos, apothecas, furnos et alia iura redditus et proventus ...”.
L’atto era diretto al giudice Pietro di dom. Niccolao dei Massei di Amatrice giurisperito e “nuncusque magistro portulano ... et magistro salis”. Venne scritto a Napoli nella camera del re. La carica di portolano a quei tempi corrispondeva al guardiano dei porti, sovrintendente al commercio e al pagamento dei dazi.

Carlo dopo la morte lasciò una accorta vedova, Margherita di Durazzo, e i due figli minorenni, Ladislao e Giovanna.
Erano rimasti anche dei conti che riguardavano Firenze e il nostro mercante. Nel 1387 infatti il notaio Antonio di Ciccio dei Ranieri della città di Penne, in cospetto della serenissima signora Margherita – per grazia di Dio regina di Ungheria, Gerusalemme e di molte altre nazioni tutte elencate, per sé e come tutrice del principe Ladislao figlio della buona memoria del re Carlo III –, costituì procuratori, fattori e nunzi speciali e generali Zanobi di Neri Macinghi, Antonio di Guido della Foresta e Antonio Di Giovanni del Pecchia cittadini fiorentini per avere ciò che Carlo aveva posseduto nella città, distretto e contado di Arezzo e quindi per donarlo ai priori delle Arti e al vexillifero di giustizia di Firenze.
Il notaio si trovava nel castello dell'Uovo di Napoli nella camera della regina, presenti i suoi militi e consiglieri Gentile dei Merolini di Sulmona, Giovanni “de Trevis”, Gurrello Orilgia dottore in legge, Antonio Orilgia e Martucello dei Bonifazi di Napoli.

Paola Ircani Menichini, 17 settembre 2022.
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